giovedì 20 dicembre 2018

Downpour - Downpour (2018)

Ogni tanto, nelle mie recensioni di Alternative Rock Heaven mi lamento di come il metalcore nella sua storia sia diventato rapidamente scontato, con tanti gruppi di maniera che non riescono ad andare oltre i soliti cliché. Ma non bisogna fare di tutta l’erba un fascio: esistono anche gruppi che riescono a dare un contributo personale al genere, come per esempio i Downpour. Nati nel 2014 dall’unione di quattro musicisti statunitensi – tra cui spiccano il cantante degli Shadows Fall Brian Fair e l’ex batterista degli Unearth Derek Kerswill – hanno pubblicato lo scorso sette settembre il loro debut album omonimo. Si tratta di un lavoro già con le idee chiare, in primis per quanto riguarda lo stile: è un metalcore di stampo melodico, che però risulta molto più variegato e animato rispetto alla media. Lungo tutta la sua durata, si alternano passaggi aggressivi e altri calmi, momenti diretti e altri dilatati e atmosferici. Gli americani fanno questo ricorrendo anche a un buon numero di influssi diversi: in Downpour si possono sentire venature soprattutto alternative metal, ma anche dal metal classico, dal progressive e tanto altro. Ognuna di esse è però ben integrata con le altre, in una costruzione solida che beneficia di un songwriting di alto livello: si sente che i Downpour sono tutti musicisti scafati e con un’esperienza importante alle spalle. Peccato solo che il disco ogni tanto non sia esente da qualche difetto: per esempio, la sua scaletta è un po’ ondivaga, con alcuni pezzi eccezionali ma altri non alla loro altezza. In più, Downpour appare anche un po’ corto: per un disco metalcore classico i suoi trentotto minuti sarebbero giusti, ma per uno stile più vario come quello del quartetto sono pochi, come anche le sole sette canzoni. Sono difetti che limitano un po’ la riuscita del disco, ma in fondo non troppo: anche così, Downpour è un buon album, interessante soprattutto in prospettiva futura ma non disprezzabile in chiave presente!

Un breve intro che ne anticipa i temi, poi The Serpents Tongue entra nel vivo più che classica, col suo riffage ritmato, spezzato, tipico da metalcore, corredata dallo scream di Fair. È una norma che torna a tratti lungo il pezzo, per poi lasciare spazio però a una progressione diversa, che all’inizio perde impatto ma si fa più strisciante, lenta e dissonante. È il preludio a una fuga repentina, non troppo veloce ma efficace: scatta e per qualche secondo colpisce con potenza, col riffage di Matt LeBreton vicino addirittura al thrash metal in molti frangenti. In tutto questo c’è però spazio anche per dei passaggi più distesi: di solito sono brevi stacchi, tranne che al centro, dove fa bella mostra di sé un bell’assolo melodico e sentito, e sulla tre quarti, dove invece le chitarre sono sinistre, quasi stridenti a tratti. Sono le due variazioni principali di un pezzo che per il resto è abbastanza lineare, ma non è un problema: la qualità è già piuttosto buona! Va però meglio, anche di parecchio, con Truth in Suffering: si sviluppa da un attacco dilatato e malinconico per poi proporsi in un lento crescendo, che solo dopo circa un minuto entra davvero nel vivo. Ci ritroviamo allora in una frazione di metalcore potente, almeno a livello ritmico; i vocalizzi tranquilli del frontman però danno al tutto un certo senso di pathos. È lo stesso che esplode con più forza negli stacchi che tornano all’essenza più espansa iniziale e soprattutto nei ritornelli: mescolano le due anime sentite fin’ora in qualcosa di sentito, caldo, di ottimo impatto. A parte una frazione centrale di ottimi assoli, che guardano di nuovo al metal tradizionale, non c’è molto altro in un pezzo lineare, ma che colpisce bene con la sua bella atmosfera: non è tra i pezzi migliori di Downpour, ma non viaggia nemmeno troppo lontano!

Un breve e semplice intro di Kerswill, poi ci ritroviamo subito in Astral Projection, che all’inizio spiazza: il riffage è calmo e melodico, a metà tra alternative e addirittura gothic rock. È una norma che però colpisce bene con la sua sottile depressione; lo stesso vale anche quando il pezzo comincia a progredire e a crescere in tensione. Succede per esempio nei ritornelli:  all’inizio è sempre la calma a dominare, con una frazione che echeggia di heavy metal classico – e per quanto possa sembrare strano, i vocalizzi di Fair si avvicinano persino a quelli di Dee Snider dei Twisted Sister! In seguito però si fanno più drammatici e di impatto emotivo; anche il resto tende a evolversi, col passare dei minuti. Per esempio, nella falsariga di base spuntano a tratti un riffage più incisivo e delle tastiere che danno al tutto un tono ancor più ricercato; soprattutto, però, a differenziarsi sono i passaggi più rabbiosi, da metalcore più incisivo, che si aprono a tratti. Sono momenti di gran potenza e cattiveria, ma non stonano in mezzo alla melodia del resto: aiutano anzi a creare un contrasto che riesce a potenziare entrambe le frazioni. Non è male neanche il finale: parte quando il pezzo sembra si stia per concludere, e per un minuto e mezzo si mostra cadenzata, con un tipico riffage metalcore e tanta potenza ma anche un assolo non male. È l’ottimo finale di un gran brano, senza dubbio uno dei picchi del disco!

Con Still Waiting, i Downpour tirano i il fiato: sin dall’inizio, è una canzone ancora più eterea di quanto sentito in precedenza, con lievi effetti ambient sopra a cui solo dopo quasi trenta secondi arriva in scena una chitarra pulita. Da qui, il pezzo non cresce poi molto in tensione: il ritmo di Kerswill è formato da lievi percussioni,  e a tratti scema anche, per passaggi anche più psichedelici, in cui la voce di Fair è un eco lontano. Altri passaggi invece sono un po’ più densi e anche preoccupati, grazie al frontman e a una melodia un po’ più grintosa, per quanto la chitarra resti sempre pulita e abbia una sua delicatezza. Quella distorta spunta invece solo al centro, con una frazione più rumorosa ma sempre piena di echi e mai aggressiva, che aumenta ancora lo stato di ansia che tutto il resto evoca. È anche il punto di massima tensione di un pezzo che poi torna a scemare, in un lungo outro che riprende gli stessi temi già sentiti e li rende ancora più espansi, persino psichedelici a tratti, prima di concludersi con una coda ambient. È il gran finale di un episodio molto originale e lontano anni luce dalla classica ballad: anche questo fa sì che, nonostante la differenza col resto, non solo non stoni ma sia addirittura la punta di diamante della scaletta col brano precedente!

L’intro di Beautiful Nothing, soffice e con vaghe tinte industrial su cui poi si staglia la chitarra pulita, può dare quasi l’impressione di un altro esperimento simile al precedente; poi però i Downpour ricominciano a salire d’intensità. Ci ritroviamo così in un pezzo melodico ma metallico che poi si accentua ancora: le strofe, per quanto non troppo aggressive, sono comunque vorticose e crepuscolari. È l’essenza che nel pezzo si fa ancora più forte: a tratti spuntano frazioni più rabbiose, da metalcore classico, mentre altrove il gruppo è meno aggressivo ma nervoso, con Fair che presto passa allo scream fisso. Niente di tutto questo è male, ma il complesso suona un po’ anonimo, fatica a rimanere in mente; lo stesso vale, in misura ancora maggiore, per la frazione centrale, vorticosa e molto variegata, quasi a livelli da progressive metal, ma senza riuscire a incidere granché in nessuno dei suoi tanti passaggi. L’unica frazione che invece colpisce bene è quella di trequarti: parte quando il pezzo sembra si stia spegnendo in un lento fuzz, e aggredisce bene, con un riffage potente, aiutato poi anche da fraseggi dissonanti della chitarra. Non male anche la frazione centrale: soffre un po’ del difetto del pezzo ma è piacevole, coi suoi toni delicati e malinconici. Non basta tuttavia a ritirare su una canzone piacevole ma nel complesso riuscita soltanto a metà.

Without the Fear inizia ancora espansa, su toni ambient in questo caso anche inquietanti. Presto però ne emerge una base grasse e potente, alternative metal lento e dilatato, ma di ottima potenza. È la stessa che regge i ritornelli, cupi e a loro modo persino nichilisti, nella loro disperazione intensa, senza il minimo bagliore di luce. Il resto del pezzo è però più diretto e aggressivo: lo sono per esempio le strofe, cadenzate come da norma metalcore, secche e molto urlate. Il pezzo si apre un po’ di più coi bridge, meno feroci ma animati e rapidi: anche in essi si respira in parte la preoccupazione e la cupezza del resto, e risultano perciò adatti a raccordare le altre due parti. Bella anche la frazione finale, che dopo un momento corale presenta il solito assolo di qualità, e quindi un assalto abbastanza estremo. È il bel sigillo su una traccia corta (coi suoi quattro minuti scarsi, è quella meno lunga della scaletta) ma intenso, a poca distanza dal meglio del disco! Il compito di concludere Downpour è quindi affidato a Mountain, in cui la band lascia da parte i toni oscuri sentiti fin’ora. Sin dall’inizio, i toni sono positivi, quasi gioiosi: lo si sente bene già dall’inizio, con dei cori solari sopra a una base potente ma non aggressiva, fatta di ritmiche metalcore ma anche tante tastiere. È la falsariga che regge le strofe, per poi evolversi in maniera ancor più estroversa e liberatoria nei chorus, sognanti e liberatori, con una melodia di base addirittura zuccherosa. Entrambe le parti sono valide, come anche le poche variazioni, che riprendono le stesse melodie e aiutano il tutto a non essere troppo monotono. Tuttavia, se di per sé abbiamo un pezzo discreto, dopo un disco così oscuro non c’entra molto: è per questo che, pur apprezzando l’esperimento, trovo che come finale non sia del tutto adeguato.

A questo punto, resta un piccolo rammarico: senza la flessione nella seconda metà – magari sostituita da un paio di pezzi del livello medio della prima – Downpour sarebbe potuto essere ottimo, o addirittura un capolavoro. In fondo però chi si accontenta gode, e qui c’è molto di cui accontentarsi: parliamo comunque di un disco personale a livello stilistico, onesto e con un paio di gemme da urlo. È insomma un lavoro parecchio al di sopra della media del metalcore di oggi: se ti piace il genere e non disdegni esperimenti e influenze lontani, il consiglio è di dargli assolutamente una possibilità!

Voto: 79/100

Mattia

Tracklist: 

  1. The Serpents Tongue - 04:54
  2. Truth in Suffering - 05:41
  3. Astral Projection - 06:58
  4. Still Waiting - 05:32
  5. Beautiful Nothing - 07:37
  6. Without the Fear - 03:50
  7. Mountain - 04:11

Durata totale: 38:43

Lineup: 

  • Brian Fair - voce
  • Matt LeBreton - chitarra, 
  • Pete Gelles - basso 
  • Derek Kerswill - batteria

Genere: metalcore
Sottogenere: metalcore melodico
Per scoprire il gruppo: la fanpage Facebook dei Downpour

Nessun commento:

Posta un commento