giovedì 14 giugno 2018

Nemesis Inferi - A Bad Mess (2018)

Nel mondo della musica rock e metal, ci sono due categorie di gruppi: quelli che costruiscono un’intera carriera sullo stesso genere di base, e quelli invece che si evolvono e cambiano direzione, anche di molto. I bergamaschi Nemesis Inferi sono un esempio davvero calzante di quest’ultima categoria: sono nati con questo nome nel 1999, ma alle spalle avevano già diversi cambi di nome, tra cui il più importante fu Pleymobil. È proprio con questo che pubblicarono l’album Life Dimension of Death, un album che mescolava thrash, death e doom metal in qualcosa di originale. Col nuovo nome invece la band abbracciò all’inizio una dimensione più vicina al black sinfonico, come si può sentire in Sins of Eden (1999) e in parte nel più eclettico successore Another Kind of Evil (2009). Ma la voglia di sperimentare dei Nemesis Inferi non era finita lì: in Natural Selection (2015), la band svoltò su un groove metal potente e dalle inflessioni alternative. Arriviamo così a tempi recenti: risale allo scorso 19 gennaio il loro ultimo album A Bad Mess, che rappresenta un ulteriore evoluzione. Parliamo di un genere molto sfaccettato e difficile da definire: di base mescola alternative, punk e metal in qualcosa di semplice, dinamico e diretto, più seminale e grezzo della classica incarnazione dell’alternative rock/metal. In più, i Nemesis Inferi aggiungono molte influenze, che vanno dal groove metal (un retaggio del passato) al southern e al gothic, seppur la più importante sia l’hard rock, uno spettro che aleggia sempre ovunque in A Bad Mess. Chiude il quadro la voce di G.M. Gain, vicina per attitudine a quella di James Hetfield: dà un tocco di più all’energia della musica, con cui si sposa molto bene. In effetti, parliamo di un lavoro movimentato e che riesce a intrattenere quasi sempre nella maniera adeguata; purtroppo, però, i Nemesis Inferi non sono immuni da alcuni difetti. Il principale di A Bad Mess è l’omogeneità: la costruzione dei riff tende ad assomigliarsi lungo tutto il disco, e pur non essendo un problema spinto come in altri dischi oggi, frena un po’ le potenzialità della band. Un altro problema è rappresentato dalla registrazione, un po’ troppo rimbombante e lo-fi, forse in maniera voluta: da una parte dà un po’ di fascino all’album, ma a tratti suona troppo grezza e limita la capacità dei riff di esplodere. Ma in fondo ci si può accontentare così: se è probabile che maneggiando la loro personalità i Nemesis Inferi potessero fare di meglio, A Bad Mess risulta lo stesso di buonissima qualità.

Never on Your Mouth comincia subito con un riff rockeggiante che già mostra una certa potenza, pur essendo filtrato. È un buon preludio per una traccia che poi lo riprende in maniera più potente ed espansa: è la base di tutte le strofe, movimentate e veloci, senza alcun fronzolo. Si cambia verso solo per i ritornelli, ancora rapidi ma più liberatori, catchy, con la voce roca di G.M. Gain e un bel riffage su cui spunta la chitarra solista di Fazz, che abbellisce il tutto. Quest’ultima ogni tanto arricchisce anche l’altra frazione, ma stranamente non le frazioni strumentali al centro e nel finale, riottose, possenti, di pura natura ritmica, e anche questo consente loro di incidere a dovere. C’è poco altro in un pezzo molto lineare, ma che coinvolge molto bene: è un’apertura più che buona per un album così! Va però ancora meglio con Breaking Bad, che sin dall’inizio mostra la sua potenza ma anche il suo disimpegno. Il tempo con cui il batterista Matteo la accompagna è più lento della precedente, e a tratti scende pure: è il caso delle strofe, che cominciano aperte, solari, calme hard rock con una punta di southern e stoner. Pian piano però questa norma tende a salire, fino a raggiungere ritornelli più movimentati: divertenti, mostrano però una punta di oscurità, di inquietudine, in un connubio che li rende molto coinvolgenti. Ottima anche la frazione centrale, divisa a metà proprio come il resto: una prima frazione espansa, calma, dominata dal lieve lead di chitarra, cresce poi fino a raggiungere qualcosa di più roccioso, fino a congiungersi con delle belle staffilate ritmiche. Queste ultime prendono poi il sopravvento, ma solo per un secondo; si sviluppano meglio invece nel finale, macinante e di gran potenza. In ogni caso, parliamo sempre di componenti valide per un brano molto ben riuscito, uno dei picchi assoluti di A Bad Mess. Un breve preambolo, poi anche Hate My Name prende vita senza grandi fronzoli, semplice e movimentata, con un riffage di base rockeggiante e diretto. È una base piacevole ma un po’ piatta, incolore, con la sua mancanza di melodia e di qualsiasi altro spunto. Molto meglio va invece coi refrain, che intrattengono col loro ritmo quasi dance e le solite ottime melodie della chitarra di Fazz, che disegna un bel lead e rende il tutto molto catchy. Spicca alla grande anche la parte centrale, la più energica e graffiante del complesso, ma che non manca di un ottimo assolo – e poi torna nel finale, fondendosi con l’ultimo ritornello. Anch’essa contribuisce a salvare un pezzo che per questo risulta ancora piacevole, seppur  brilli meno degli altri, e in generale si situi sotto la media dell’album.

Sin dall’inizio, Rising sa già un po’ di già sentito, con un riffage impostato come quelli delle canzoni precedenti, ma non dà fastidio: merito dei Nemesis Inferi, che lo colorano con più melodia del solito. Inoltre, ora la struttura varia più che in passato: questo tipo di norma torna solo ogni tanto, in alternanza con strofe invece più quadrate, potenti, metalliche, con le ritmiche profonde e ossessive di Fazz e Gain, di influsso groove metal. Il vero capolavoro i bergamaschi lo fanno però i chorus: dopo brevi bridge cupi ed espansi, tornano a graffiare con un riffage potente, di tono quasi oscuro, ma che in unione col resto è anche speranzoso, malinconico, catturante. In più, passata da poco metà, il brano cambia forma, e comincia ad alternare momenti possenti e circolari con aperture più calme e hard rock, in un connubio che respira bene e dà un tocco in più al tutto. Sembra quasi che poi la norma si debba riprendere, invece il quartetto ci stupisce ancora con un finale martellante, di ottima potenza: è un altro grande passaggio per un episodio splendido, uno dei migliori di A Bad Mess! È quindi il turno di Anything Anymore, che lascia da parte i toni tesi del resto per esprimersi  in una power ballad non troppo lontana dall’archetipo classico del genere. Ma nonostante questo, riesce a coinvolgere bene: merito di un’impostazione che sin dall’inizio, col basso di Daniel, si mostra meno patinata e più grezza del normale. Anche quando poi entra nel vivo, la sensazione è la stessa: sotto a un Gain meno graffiante che ricorda il gothic a tratti, la base è rarefatta, con chitarre di vago retrogusto persino post-rock a tratti. Ogni tanto, si sale di voltaggio per ritornelli che riprendono le melodie in maniera più densa e rutilante: anche essi però mantengono lo stesso pathos depresso e mortificato del resto, che come da tradizione qui si accentua. È un’aura presente anche al centro, l’unico momento davvero potente: comincia da qui una progressione movimentata che alterna momenti intensi, pesanti e anche un po’ oscuri con brevi frazioni che riprendono la carica melodica precedente. È una bella progressione che poi pende sulla seconda norma, per un finale teso ma anche molto melodioso, molto adatto a concludere un bel lento, non troppo lontano dai picchi del disco!

Con Bad Mess torniamo a qualcosa di più animato: lo si sente sin dal pesante inizio che però dà origine a una norma dinamica e rockeggiante. È la base sia delle strofe, che la declinano in maniera più melodica, malinconica, senza fronzoli, sia dei ritornelli, che tornano in parte all’inizio e si presentano più pestati, ma sempre catturanti il giusto. A livello macroscopico, la prima metà non varia molto, ma i Nemesis Inferi riescono comunque a renderla interessante e a scongiurare il pericolo ripetitività, sia con piccole variazioni che con brevi intermezzi che la punteggiano qua e là. Si cambia verso in maniera radicale solo a metà, quando il ritmo rallenta di colpo e il brano diventa all’istante più espanso, calmo. Abbiamo allora una bella progressione a tinte hard rock che evoca un paesaggio soleggiato, tra un assolo e l’altro. È forse la frazione migliore per un brano forse non tra i picchi dell’album a cui dà il nome, ma a parte questo più che buono! È ora il turno di Crawling in the Dust: riprende da dove la precedente ha lasciato e in principio è lenta e placida, con al centro una rarefatta chitarra blues/southern. È il filo conduttore anche quando, dopo un minuto, il tutto si potenzia ma rimane ancora melodico, calmo, rilassato. Sembra quasi che il pezzo debba oscillare tra queste due norme quando quella iniziale riprende, ma poi i Nemesis Inferi ci stupiscono con un’improvvisa sterzata in fatto di potenza e velocità. La nuova falsariga presenta un riffage magmatico, teso, che a tratti si fa anche più potente, con Matteo che pesta di più e più veloce, mentre solo tra le righe si scorgono ancora le armonie precedenti. Solo a tratti quella norma torna alla carica, per chorus carichi di sentimento: nonostante la differenza col resto però non stonano, anzi si crea un bel contrasto che potenzia entrambe le parti. C’è spazio anche per una bella parte centrale che unisce le melodie dell’anima più morbida della traccia col dinamismo di quella più spinta. È la ciliegina sulla torta di un gran pezzo, lungo e complesso ma sempre avvolgente: risulta addirittura il migliore di A Bad Mess con Breaking Bad e Rising! Siamo ormai alla fine, e per l’occasione i Nemesi Inferi schierano Vertigo, che ritorna alla semplicità sentita in precedenza – forse anche troppo. Un bell’intro, vorticoso e in cui il drummer usa addirittura il doppio pedale, poi entra in scena una norma più quadrata e lineare, movimentata, con un riff quasi thrash metal per retrogusto. Non è male come impostazione: peccato però che poi il brano si evolva in una direzione più leggera e soprattutto con melodie simili a quelle già ascoltate lungo l’album, che non la fanno spiccare molto. In generale, solo qualche passaggio qua e là riesce a rimanere in mente: il resto risulta un po’ insipido, un po’ per l’effetto già sentito, un po’ perché per una volta la band non sembra ispirata. Ne risulta un brano non spiacevole che però non va molto oltre, e risulta il meno bello del disco: non una gran chiusura, insomma, per quanto non dia troppo fastidio al complesso.

Per concludere, insomma, A Bad Mess non è un album perfetto, né un capolavoro. Ma ci si può anche accontentare: rimane un lavoro fresco e personale, oltre che godibile per quasi tutta la sua durata. Se l’alternative e l’hard rock fanno per te e non ti spaventano sonorità troppo grezze, è insomma un album che ti consiglio. Al suo interno troverai di sicuro qualcosa di divertente alle tue orecchie!

Voto: 81/100

Mattia

Tracklist:
  1. Never on Your Mouth - 03:54
  2. Breaking Bad - 04:15
  3. Hate My Name - 04:09
  4. Rising - 05:02
  5. Anything Anymore - 05:05
  6. Bad Mess - 05:40
  7. Crawling in the Dust - 06:58
  8. Vertigo - 05:11
Durata totale: 40:14

Lineup:
  • G.M. Gain - voce e chitarra
  • Fazz - chitarra solista
  • Daniel - basso
  • Matteo - batteria
Genere: alternative rock/metal
Sottogenere: alternative hard rock

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