giovedì 28 dicembre 2017

Coldplay - Viva la Vida or Death and All His Friends (2008)

Un buon fine dicembre a tutti i nostri lettori. Anche per questo giovedì, il nostro blog vi porterà alla scoperta (o riscoperta) non di album esordienti, ma di lavori di band un po’ più famose. Questa volta tocca ai Coldplay e a uno dei dischi più ascoltati della band degli ultimi anni: Viva la Vida or Death and All His Friends.

Tutti ormai hanno sentito parlare dei Coldplay. Nati nel 1997, questa band alternative rock inglese ha alle spalle anni di carriera contornati da grandi successi, dodici album pubblicati, arene piene di fan e fama mondiale. Tra i vari album di grande successo, in questa recensione analizzeremo Viva la Vida or Death and All His Friends, lavoro pubblicato nel 2008 che presenta la collaborazione con un pezzo da novanta come Brian Eno e ha fatto vincere alla band un Grammy per miglior album rock dell’anno. Oltre a questo, Viva la Vida rappresenta nella carriera della band un netto stacco con i lavori precedenti, sia a livello di musicalità stessa impostata nelle tracce, sia per struttura dei brani, spaziando sui ritmi e i temi affrontati.

Life in Technicolor, in qualità di prima traccia, lavora come un’overture per questo album che finalmente giustifica in toto tutta la fama della band. Delle prime leggere note di synth ci portano in un’atmosfera quasi onirica. Si nota già un crescendo dopo le prime battute che fa in modo di introdurre tutti gli strumenti usati dalla band in questo lavoro. La parte principale in questa traccia è affidata sicuramente alla chitarra che irrobustisce il suo suono sempre di più, giro dopo giro. Solo in lontananza si percepiscono i giochi di cori e soltanto come un breve accenno. Il peso principale sulla traccia viene dato agli strumenti che diventano protagonisti, non le voci. Cemeteries of London con le sue caratteristiche, pian piano pone l’attenzione dell’ascoltatore verso toni più cupi. In questo caso Chris Martin ci accompagna passo dopo passo, come un narratore che tesse davanti ai nostri occhi una scena notturna piena di misteri e da sapore gotico quasi vittoriano. Se all’inizio i suoni sembrano cupi e lenti, dopo la seconda strofa vediamo che va crescendo come un senso quasi di trepidazione, grazie all’aumento ritmico in velocità per via della batteria, della chitarra e del basso. L’effetto un pelo creepy gotico è dato ancora una volta, ma nelle strofe da un leggero gioco sulle seconde voci. La band in questo album dà sempre molto spazio alle parti avocali, con gli strumenti musicali come attori principali. Nel caso di questo brano arriviamo anche all’utilizzo di tocchi di pianoforte a fine brano. Evidente risulta inoltre essere la presenza di un retrogusto latino alla musica che porta a una comunione particolare di elementi. Piccolo particolare interessante: nella cultura messicana si festeggia il Dia de Muertos, quindi l’accostamento melodie cupe/accenni latini/titolo collegato ai morti non è un qualcosa di nuovo e tanto campato per aria, ci avete mai pensato?

In Lost! L’utilizzo di note più sintetiche, presenti insieme a un ritmo ben deciso, richiama il famosissimo brano Fix You (sempre creazione della band) per l’uso fatto dell’organo. Forse l’utilizzo proprio di questo strumento in qualche modo può riportare alla mente più la musica gospel che quella madrigale, dandoci,  soprattutto nel ritornello, l’impressione di trovarci in un momento di comunione religiosa, sottolineato anche dal ritmo impostato su suoni che si basano molto sull’handclap. La traccia, rispetto alle precedenti, presenta ritmi più rallentati e fa notare sulla seconda parte una maggiore presenza della chitarra elettrica. Anche in questo caso, forse a richiamare proprio la componente un po’ gospel, sono ancora presenti giochi su cori/seconde voci. 42 è una traccia il cui titolo richiama Guida galattica per autostoppisti? Non lo sappiamo. Sta di fatto che suona quasi come una coda di Cemeteries of London. Il brano attacca immediatamente con un pianoforte e la voce di Chris Martin che pian piano ci accompagna con parole piene di malinconia, e sempre le stesse strofe, variando nella loro dislocazione, si ripetono lungo tutto il corso della traccia, come per esempio Those who are dead are not dead/They're just living in my head/And since I fell for that spell/I am living there as well. Nello stesso tempo, verso dopo verso, troviamo un malinconico crescendo di suoni che rimpolpano lo scenario musicale proposto all’ascoltatore dalla band. Verso un terzo della traccia i ritmi cambiano. Sentiamo chitarre, violini, batteria e basso interagire quasi su una melodia dal sapore lievemente gitano ma deciso e che provoca quasi una vertigine. Dopo questa sezione completamente strumentale i ritmi cambiano di nuovo e la melodia si fa più trascinante, come suggerisce la voce principale stessa, portandoci in un’atmosfera che sembra quasi parlare di tutto tranne che di morti. Tutto si dissolve in un secondo poiché, a fine sezione, il brano termina esattamente così come è iniziato, quasi come a creare un piccolo ciclo vitale di una sola traccia all’interno di una struttura più complessa come quest’album suggerisce davvero d’essere. Lovers in Japan/Reign of Love è la prima delle double track presenti nell’album. Vengono ripresi in parte i ritmi e le melodie di Life in Technicolors. La traccia risulta essere trascinante per l’ascoltatore, che quasi involontariamente si trova a muovere la testa a tempo. Tutto ciò viene attivato grazie al pianoforte, al rullante della batteria e alle parole volontariamente allungate da parte di Chris Martin. Una netta contrapposizione con i temi presentati nelle due tracce precedenti. Il dualismo del brano si ritrova in questa stessa traccia ma anche nel titolo stesso dell’album: Viva la Vida or Death and All His Friends. A quanto pare i Coldplay vogliono dare una sorta di doppia lettura al proprio lavoro: l’ascoltatore può concentrarsi su quel Viva la Vida, oppure focalizzarsi sul Death and All His Friends. Tornando alla traccia in questione, pian piano vediamo come i ritmi sembrano dissolversi per lasciar spazio all’altra faccia contrapposta a Lovers in Japan stessa, ovvero Reign of Love, introdotta da un aggraziato giro di pianoforte che scorre come acqua nell’orecchio dell’ascoltatore fino alla fine. Perfino la voce di Martin si one su versanti più delicati, sostenuto solo in forma minimale dal basso, e da note di chitarra. Yes contiene anche la traccia fantasma Chinese Sleep Chant: altra double track. Già l’attacco presenta i violini che pongono uno sfondo quasi distorto. Più che accenni all’America Latina, ci troviamo di fronte a un collegamento con l’Oriente dato dai violini stessi. A confronto con alcune tonalità più acute, la voce di Martin si presenta molto più bassa del suo consueto, accompagnata in queste sue caratteristiche dalla parte di basso che risulta esser più marcata. Suggestive sono le sezioni di violino dalle sonorità che richiamano l’oriente, ci portano invece a musiche di matrice gitana che arricchiscono la traccia, creando uno scenario molto suggestivo. Il trait d’union tra Yes e Chinese Sleep Chant è la chitarra elettrica che crea degli effetti quasi distorti, con la voce di Martin che verte verso il falsetto e l’acuto senza risultare sgradevole. È quasi come un intermezzo che poi ci porta verso la traccia successiva, anche se forse risulta essere un pelo troppo lungo.

Viva la Vida è la canzone di punta dell’album che tutti hanno ascoltato almeno una volta, dall’impatto acustico e trascinante immenso. L’inizio con violini è potente. In questo caso i Coldplay vanno a toccare molte delle caratteristiche di uno stile musicale sinfonico che ha toni epici, grazie agli stessi violini, l’utilizzo grandioso fatto della grancassa, toni di synth, clavicembalo, cori e addirittura campane. Una traccia che riunisce tantissimi tipi di strumenti e allo stesso tempo riesce ad essere perfetta e non confusionaria. Violet Hill ha una caratteristica che magari tutti non vogliono ammettere: presentandosi dopo Viva La Vida, brano con un impatto così forte, è un fattore che può esser quasi considerato una rogna. Tuttavia, andando avanti nell’analisi, si presenta un inizio con synth molto leggero che ci porta a una scansione ritmica più decisa, prima grazie a note forti di pianoforte, poi di batteria. Ritorniamo sui toni più cupi e i ritmi quasi da marcia in alcuni tratti tra una strofa e l’altra. Si crea un contrasto strano quando si presenta un leggero cambio di ritmo, in cui si impone molto di più la chitarra accompagnata dalla batteria. La traccia termina con arpeggi di pianoforte molto più leggeri che accompagnano solitari la voce di Martin senza altri strumenti in mezzo ad aggiungere infiorescenze inutili. Con Strawberry Swing i toni sono decisamente più leggeri, con un banjo che che ci riporta a melodie più southern, con una sezione di basso quasi impalpabile come l’uso fatto della batteria. Solo in pochi brevi tratti i ritmi sembrano rallentarsi. Pian piano, verso la fine le melodie vanno a modificarsi per sparire languidamente, con ultimi echi di handclap e violino. L’ultima traccia è Death and All His Friends. Si nota molto di più il marcio sonoro del pianoforte, coprotagonista con la voce quasi falsettata di Martin. Solo in un secondo momento arriva la chitarra elettrica, nemmeno troppo pesantemente e in seguito la voce primaria scompare quasi del tutto, in modo da dare più spazio a una sezione ben decisa di pianoforte e chitarra, i quali danno l’avvio all’utilizzo di tutti gli altri strumenti, con alternarsi si sezioni più ritmate e più lente, con stacchi che a volte non sono proprio gestiti bene al 100% poiché troppo improvvisi e forse disorientanti per l’ascoltatore. In questa ultima traccia forse ci si trascina un po’ troppo e si insiste con alcune strofe ripetute quasi un po’ troppo. In realtà poi la traccia finisce così come l’album era cominciato: eccoci di nuovo con una double track. Dico così come “era cominciato” perché il lato B di questa double track ci riporta alle sonorità delle prime tracce. Leggere, fluide come l’acqua, con accenni lievi di synth. Ecco come si struttura The Escapist che, man mano che si dissolve, ci porta alla fine di questo album.

Cosa possiamo dire alla fine di questa analisi? Ci troviamo davanti a un album con pochissime sbavature (il che porterebbe a dire “Santo Brian Eno per averci messo le mani!”), sbavature che si ritrovano in un paio di sezioni troppo lunghe di certe tracce e alcuni scambi di ritmi un po’ troppo improvvisi. Per il resto, in quest’album i Colplay sono stati capaci di raccogliere, come in una collana preziosa, gemme di canzoni dai colori più vari possibile senza quasi colpo ferire.
Alla prossima!

Voto: 98/100

Valetrinity

Tracklist:

  1. Life in Technicolor – 2:29 
  2. Cemeteries of London – 3:21
  3. Lost! – 3:55
  4. 42 – 3:57
  5. Lovers in Japan/Reign of Love – 6:51
  6. Yes/ Chinese Sleep Chant – 7:06 
  7. Viva la vida – 4:01
  8. Violet Hill – 3:42
  9. Strawberry Swing – 4:09
  10. Death and All His Friends/The Escapist – 6:18

Durata totale: 45:49

Lineup:

  • Chris Martin – voce, pianoforte e chitarra acustica
  • Jonny Buckland – chitarra elettrica e tastiera
  • Guy Berryman – basso, sintetizzatore e armonica a bocca
  • Will Champion – batteria e percussioni

Genere: alternative/pop rock
Sottogenere: brit pop
Per scoprire il gruppo: il sito ufficiale dei Coldplay

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