giovedì 11 aprile 2019

The Blank Canvas - Vantablack (2018)

Nel mondo della musica, la maggior parte dei gruppi non pone grandi problemi a chi, come me, ha la passione per etichette e classificazioni. Tuttavia, esistono anche  chi, per complessità stilistica o di influenze, sfugge a ogni definizione: è per esempio il caso della band di oggi, i The Blank Canvas. Quartetto di Pistoia, ha pubblicato alla fine dello scorso anno l’album d’esordio Vantablack, uscito grazie a Drown Within Records. Il genere al suo interno è davvero difficile da etichettare: di base è un alternative con forti venature hard, metal e post-rock, ma il gruppo ci mette anche un gran numero di influenze. Provengono soprattutto dal progressive e dalla musica elettronica, ma a volte il gruppo prende anche dal metal estremo, dal post-punk, dallo stoner e da tanti altri mondi. Poteva essere un’accozzaglia senza capo né coda, ma non è il caso dei The Blank Canvas: all’interno di Vantablack, brilla la loro grande capacità nell’amalgamare tutte queste sfaccettature in qualcosa di compatto, unitario. Si tratta di uno stile molto originale, ma il punto di forza del quartetto è un altro: l’abilità compositiva. Lungo la scaletta, i The Blank Canvas evocano le sfumature più diverse, con l’atmosfera sempre al centro ma senza lasciare da parte la potenza né le melodie, specie per quanto riguarda quelle elettroniche: un’altra caratteristica che li  contraddistingue in maniera forte. In generale, Vantablack è un lavoro con tanta sostanza e pochissime sbavature: ciò lo rende non solo ben superiore alla media degli album d’esordio, ma anche un piccolo gioiellino tutto da scoprire!

La opener Ten Knives parte subito arrembante, col ritmo veloce e frenetico su cui si staglia subito il basso di Marco Filippi, un vortice pesante e profondissimo. La norma gli accoppia una chitarra dissonante, obliqua e la voce di Alessio Dufur, che passa dal cupo all’urlato nel giro di poco. Si rallenta  solo all’arrivo dei ritornelli, che però non perdono nulla: sono anzi ombrosi,  persino lugubri a tratti, con potenti ritmiche di chitarra di indirizzo metal e il tappeto elettronico che a tratti le accompagna. Ci si può riposare un po’ solo al centro, che d’improvviso perde il suo dinamismo e diviene strisciante, espanso. Non troppo, tuttavia, visto che presto i toscani intraprendono un crescendo lento ma inesorabile: si potenzia sempre più finché non ci troviamo in un ambiente quasi stoner ma per niente rilassato. Anzi, è aggressivo, e si ricollega così bene col nuovo ritornello, ancora più riottoso. Sui giri che lo seguono si conclude così un pezzo fantastico, subito a un pelo dai picchi dell’album che apre. Va però ancora meglio con Vantablack, che segue: un intro strano, quasi noise, poi i The Blank Canvas ritrovano l’ordine col ritmo di Vanni Anguillesi. È proprio il batterista a guidare un nuovo assalto, veloce e di gran potenza, con ritmiche vorticose e già energiche di loro potenziate ancor di più dal florilegio di synth, di urgenza assoluta. Il suo dinamismo va avanti a lungo, non spezzato nemmeno dai rari stacchi meno diretti e più riflessivi che si aprono qua e là, né tantomeno da quelli dissonanti, obliqui. La musica rallenta solo in occasione dei refrain: staccano molto dal resto, con i loro toni a metà tra post-rock e addirittura gothic, grazie alla voce potente di Dufur e alle tastiere espanse che danno al tutto un bel tono intimista. Le due anime però si uniscono alla grande, potenziandosi l’un l’altra nel contrasto; aiuta in questo anche la parte centrale, che sintetizza le due anime con la sua impostazione lenta ma lugubre, stridente al massimo. È un altro punto di forza per un brano di grandissimo livello, uno dei picchi del disco a cui dà il nome! La successiva Time Is a Lie inizia con la voce del frontman distorta e spaziale su effetti che lo sono altrettanto: una caratteristica che poi si manterrà per tutta la traccia. Anche quando entra nel vivo, i pistoiesi non aggrediscono, anzi si mantengono sempre su una norma dilatata, con un tempo cadenzato e progressivo su cui si stagliano le venature post-rock della chitarra di Maurizio “Pappone” Tuci e la voce raddoppiata. È un’impostazione che varia spesso, tra momenti più eterei che tornano all’inizio (seppur riletto in forma più dinamica) e altri che invece lo rendono più incalzante, intenso, seppur il tutto sia ancora molto espanso. Per qualcosa di maggior impatto bisogna aspettare la sezione centrale: molto orientata verso l’hard rock, con influssi persino dal genere classico, è divertente sia nel suo assolo obliquo che nella seconda metà, dinamica e quasi purpleiana. Nonostante la differenza col resto, si integra alla grande in un’altra canzone di altissimo livello, da annoverare come la precedente tra le più belle di Vantablack!

Obsession Is My Passion ha un altro intro elettronico, ma poi i The Blank Canvas partono con un buon impatto, non velocissimo ma dinamico al punto giusto, grazie anche a un bel riff, potente il giusto. Esso però torna solo a volte lungo il pezzo, che tende ad alternare questa norma più aggressiva con frazioni più soffici: perdono in potenza ma di norma sono più striscianti e oscure, grazie agli onnipresenti synth di Tuci e Filippi. Non sempre è così, però: alcuni stacchi seguono lo stesso canovaccio, ma hanno un retrogusto meno freddo e una punta di malinconia che non guasta. Anche le frazioni più pesanti tendono a variare, come al centro, battente e aggressivo al massimo: tutti elementi di alto livello, seppur stavolta non catturino come i toscani ci avevano abituato fin’ora. È anche per questo che abbiamo il pezzo forse meno bello della scaletta, il che tuttavia significa poco: sfigurerà un po’, anche visto il trio sfolgorante che segue, ma il livello rimane molto buono, e in un disco medio spiccherebbe parecchio. Ride the Flow parte quindi dal basso iperdistorto di Filippi:dà il là a un episodio molto roccioso, che come indica il titolo stesso è in continuo fluire e trasformarsi. Di solito lo fa partendo da qualcosa di più calmo per poi finire con Dufur che urla una melodia non troppo rabbiosa ma incisiva, per quanto sia pure catchy. C’è però spazio anche per frazioni più oblique e progressive, con melodie post-rock che aiutano il tutto a evocare nervosismo. È questo del resto l’intento del pezzo, che fa del continuo movimento la sua bandiera: non fa eccezione nemmeno la lunga seconda metà. Sembra rallentare ma poi parte con una curiosa – ma splendida – unione tra melodie elettroniche e hard rock anni settanta, prima di sfociare in un assolo veloce e frenetico, che perde il divertimento precedente ma recupera la potenza precedente. È una progressione appassionante, la migliore di un pezzo appena alle spalle dei migliori della scaletta! È quindi il turno di The Deepest Fault, che entra subito nel vivo bizzarra, col suo ritmo cadenzato eppure in qualche modo salterino: è quello che regge le strofe, oblique ma di buon impatto. Molto più lineari sono invece gli stacchi qua e là, sia quelli più espansi e spaziali sia i ritornelli: lasciano da parte la semplice, seriosa atmosfera del resto per assumere una bella dosa di pathos, che colpisce bene. Ottime anche le variazioni a cui i The Blank Canvas sottopongono il brano, per esempio con la frazione centrale, ancora orientata all’elettronica e persino alla dance, almeno per la prima parte, mentre la seconda è più frenetica e alienante, con la sua densità di effetti e di chitarra. Il meglio lo riserva però il finale, in cui la musica sembra quasi doversi spegnere e invece riesplode in un possente macigno a tinte alternative rock con più di un influsso metal. È la chiusura migliore per un pezzo che non sarà tra i migliori del disco, ma ciò non toglie che sa bene il fatto suo, e in Vantablack non stoni!

Di norma, le strumentali servono a mettere in mostra le proprie capacità tecniche: non è però il caso dei toscani (del resto le hanno ben dimostrate lungo tutto l’album), che con Saha World propongono qualcosa di diverso. Lasciati da parte i toni più frenetici e potenti sentiti fin’ora, sin dall’inizio abbiamo un brano molto dilatato, lisergico, all’inizio di coordinate ambient abbastanza oscure. La musica tende poi ad arricchirsi, con l’arrivo in scena della sezione ritmica e la chitarra, che si staglia con una bella melodia sopra allo sfondo di sytnh, diventate più espanse e rumorose. Non è solo un aumento di densità, ma anche di atmosfera, che da fredda qual era diventa malinconica, empatica, avvolgente. È una norma che stavolta varia poco, va avanti a lungo: l’unica cambiamento è al centro, quando spuntano ritmiche più metal, potenti ma senza spezzare l’aura del pezzo. Che, anche per questo, è una strumentale particolare, ma di alto livello, che mostra un nuovo lato della band ed è ottima anche per riposare le orecchie prima di un nuovo scoppio. Scoppio che risponde al nome di Cover the Grudge, e che al dire il vero non è proprio graffiante: al contrario, sin dall’inizio la musica è sì potente ma anche crepuscolare, preoccupata, e quando Dufur comincia a ripetere il titolo lo diventa ancora di più. È una frazione ossessiva che tornerà poi nella frazione centrale: la ripresenta in maniera più espansa, con melodie post-rock. Il resto però è più dinamico con strofe veloci e sottotraccia e soprattutto coi chorus: non hanno pesantezza ma compensano alla grande con un bel pathos e soprattutto una melodia catchy all’estremo, che si stampa subito in mente. Chiude bene il quadro un finale invece che di energia ne ha da vendere, una bella carica riottosa e potente, ma senza interferire con un certo calore, che rimane al suo interno. È la perfetta conclusione per un brano non solo grandioso, a un pelo dal meglio del disco: vista la semplicità e la capacità di catturare, è anche il singolo ideale di Vantablack! Quest’ultimo è quasi alla fine, e per l’occasione i The Blank Canvas scelgono Black Sun Poetry, che si mostra fredda e cosmica sin dall’avvio, con la sua oscura calma. È una falsariga che stavolta la musica segue quasi sempre, seppur con diverse variazioni: spesso partono dei crescendo in cui si fa più potente e metallico, o addirittura comincia a inglobare dissonanze di retrogusto post-hardcore. Tuttavia i synth restano sempre al centro, e rendono il tutto psicotropo: ancora meglio in tal senso vanno gli stacchi in cui il pezzo si alleggerisce e diventa ancor più etereo. A tutto questo fanno eccezione solo i ritornelli: più potenti e rabbiosi, risultano però alienanti al punto giusto, grazie allo scambio con momenti più vuoti e agli onnipresenti effetti. Il tutto in una lunga progressione allucinata ma con un impatto assoluto: anche questa conclusione, insomma, si rivela eccezionale, l’ultimo dei picchi assoluti del disco!

Per concludere, Vantablack è un piccolo capolavoro, primo parto di una band giovane ma già con idee molto chiare e un gran talento. Certo, forse se ti piacciono gli schemi fissi e gli album che rientrano al loro interno, forse potrai trovare troppa carne al fuoco nella musica dei The Blank Canvas. Ma se al contrario ami chi sperimenta e trascende le etichette, allora i pistoiesi sono il tuo gruppo: corri a scoprirli!

Voto: 94/100

Tracklist: 

  1. Ten Knives - 04:18
  2. Vantablack - 05:24
  3. Time Is a Lie - 04:38
  4. Obsession Is My Passion - 03:56
  5. Ride the Flow - 04:34
  6. The Deepest Fauslt - 05:08
  7. Saha World - 04:00
  8. Cover the Grudge - 04:23
  9. Black Sun Poetry - 05:03

Durata totale: 41:25

Lineup: 

  • Alessio Dufur - voce
  • Maurizio "Pappone" Tuci - chitarra, synth, effetti
  • Marco Filippi - basso, synth, effetti
  • Vanni Anguillesi - batteria

Genere: progressive/alternative/post-rock/sperimentale/elettronico/metal
Sottogenere: alternative hard rock
Per scoprire il gruppo: la fanpage Facebook dei The Blank Canvas

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